Angelo Bozzola. Un protagonista dell’arte concreta 1950-2010

Angelo Bozzola. Un protagonista dell’arte concreta 1950-2010
Mostra retrospettiva

a cura di Martina Corgnati

All’origine. “…dopo un periodo di intense esperienze tecniche e di continue elaborazioni interiori, sono giunto alla sofferta e gioiosa conquista di una “forma” personale: la superficie trapezio-ovoidale. Perfetta in sé stessa per la sua geometrica essenzialità, tale forma mi si è rivelata e proposta quale modulo tematico ed elemento costruttivo per ogni mia ulteriore creazione pittorica e plastica”. Chi scrive così è Angelo Bozzola, in un testo riferibile probabilmente alla fine degli anni Cinquanta. Il passaggio è di grande importanza perché descrive “l’origine” del lungo itinerario artistico, umanistico ed estetico compiuto da Bozzola dal Secondo Dopoguerra fino alla morte, nel 2010. Si tratta di una forma semplice, ma di quel tipo di semplicità che deriva da un lungo e niente affatto facile processo di “decantazione” del superfluo, del ridondante, del decorativo e dell’inessenziale. Bozzola, che proveniva da una famiglia contadina, si era formato presso l’Istituto Professionale di Novara e aveva frequentato lo studio dello scultore Angelo Cattaneo, era entrato in contatto con il MAC attraverso Nino Di Salvatore nei primissimi anni Cinquanta. Non sono dettagli di poco conto: a una dimestichezza vorrei dire atavica con il lavoro manuale, Bozzola univa una notevole pratica artigianale applicata ai materiali più diversi (cosa che, fra l’altro, gli permette di fondare un mobilificio nel 1947), una curiosità fuori dal comune per la ricerca in generale e, last but not least, una forte sensibilità al bello. Questi gli “ingredienti” che sostanziano la sua vocazione artistica, emersa prepotentemente già negli anni della scuola elementare e poi soprattutto dopo la Guerra, quando incomincia a frequentare Milano e le avanguardie concretiste che lavoravano in città. Ma, prima di analizzare questa fase, è necessario soffermarsi ancora un momento su una testimonianza a mio avviso molto significativa, per rendere ragione di alcune scelte successive compiute dall’artista. “La mia origine è contadina”, racconta egli infatti, “Sono molto orgoglioso di questo. I miei genitori e prima di loro i miei nonni hanno lavorato la terra, facendo molta fatica, ma senza mai lamentarsi e insegnandomi a fare altrettanto…non solo la mia vita di uomo ma anche di scultore e di pittore non sarebbe nemmeno immaginabile senza amore per la natura…Tra le esperienze intellettuali che ho vissuto, quella che ha lasciato in me un segno profondo.. è la lettura di un libro…”La vita nel mondo delle piante”, trovato quando ero ancora un ragazzo”. Si ritiene che questa precisazione, che non mi pare sia stata presa in dovuta considerazione da parte della critica, rivesta una grande importanza: è dalla natura, dal mondo vegetale che Bozzola trae la prima lezione in merito alla “crescita” dei corpi, degli organismi viventi che, a partire dal “seme”, generano se stessi e regolano la propria crescita in base a leggi geometriche, ritmiche e matematiche di progressione e sviluppo, tutte simili ma tali da produrre un numero infinito di varianti individuali, capaci di spiegare l’illimitata varietà morfologica delle forme viventi. Nel MAC. Forte di questi interessi, Bozzola, si diceva, si accosta nel 1954 alle avanguardie concretiste, le uniche che in quel momento univano un grande rigore intellettuale ed operativo a competenze tecniche notevoli, arricchite dagli apporti di personalità diverse e stimolanti, capaci di “rigenerare” l’astrattismo geometrico d’anteguerra attraverso una grande complessità di ricerche e di esiti, pittorici, plastici e d’arte “applicata”. È su questo che l’architetto Gianni Monnet, fra i quattro fondatori del MAC, pone subito l’accento presentando il neofita Bozzola nel catalogo della sua prima personale alla Galleria del Fiore di Milano: Bozzola proviene dal “Centro Studi Arte-Industria” di Novara diretto da Nino Di Salvatore, e nel Centro Studi si pratica la sintesi delle arti, spiega Monnet, il cui spirito caratterizza infatti i primi lavori del giovane artista, già autore, in quel momento, di dipinti, disegni, sculture e persino di uno straordinario mobile in legno, laminato plastico e altri materiali, intitolato Idea, in cui si rispecchia tutta la capacità progettuale e inventiva tipica del MAC. È chiaro, infatti, che per Bozzola l’atto della creazione artistica coincide con la progettazione e con la sperimentazione di tecniche, forme e materiali. Nulla potrebbe essere più lontano dal gusto informale, la cui emozionata soggettività è ingiustificabile, o interessante, agli occhi del giovane artista, altrettanto come i suoi esiti, spesso, in apparenza, arbitrari o ispirati da una “risposta”, o meglio una “reazione” alle condizioni sociali, politiche, culturali del mondo. Per Bozzola la creazione artistica è invece prassi più indiretta e, al tempo stesso, più autonoma, sostenuta da ragioni interne, da modi di procedere specifici e volta, semmai, all’apporto di idee e di nuova intelligenza alle cose. Una posizione come questa, “positiva”, rigorosa e niente affatto ingenua, è condivisibile in quel momento in Italia probabilmente solo fra gli artisti, i teorici e gli scienziati operanti nell’ambito del MAC, ai cui “gusto” i primi lavori di Bozzola sembrano adattarsi spontaneamente e fin dall’inizio. Si tratta di lavori pittorici e grafici su superficie, disegni e dipinti (Senza titolo, Concreto, Composizione) in cui non mancano angoli acuti e, per così dire, affilati ma in cui, sin dall’inizio e non a caso, sembra prevalere la forma curvilinea. Opere senz’altro “concrete” nel senso che in esse non si rinviene alcuna estrapolazione dalla realtà naturale ma piuttosto un accadere di forme-colore gettate nel mondo, sulla base delle indicazioni già proposte e sviluppate da Di Salvatore, le cui forme sono archetipi non nel senso di configurazioni eminentemente psicologiche ma di “dati” oggettivi e verificabili, in qualche modo, a livello fisiologico e topologico: ”Il concretismo, allora, è come la natura: esso “è”, semplicemente, ed ha un valore significativo globale. E considerandolo dall’interno, cioè nel processo creatore dell’artista, possiamo più agevolmente conoscerlo (…) la creazione parte da un’immagine primordiale dell’incosciente collettivo, dalla sfera della morfologia incosciente del mondo psichico, fisico, biologico e della natura inorganica . Per persuadersi, del resto, basterà osservare l’analogia che sovente si riscontra fra una forma tipica concreta e certi aspetti del mondo dell’embriologia, dell’istologia, della fisica nucleare, della botanica, della zoologia, che l’artista non ha mai visto né direttamente né in immagine, ma che ha intuito perchè esiste una costante vettoriale della significatività sensoriale dell’umanità”. Oltre alla forma e alle sue implicazioni gestaltiche, Bozzola studia anche le relazioni fra colori, creando aree di sovrapposizione che danno luogo a interazioni complesse e variate (si veda per esempio quel che accade in Composizione concreta del 1953). Forse sarebbe esagerato ipotizzare alle spalle di queste esperienze una vera e propria “teoria scientifica”, ma non si può negare l’interesse per il colore, che continuerà infatti a operare anche quando Bozzola abbandonerà tele e pennelli per dedicarsi a forme molteplici e varie di “scultura” o di rilievo in metallo. Il colore, per l’artista, è complemento, parte integrante di quell’insieme di risorse che, opportunamente associate e calibrate l’una con l’altra, costituiscono l’opera. Sciocco rinunciarvi a priori, anche se per l’artista non è pensabile una sua espansione indefinita e autonoma rispetto alla forma, alla quale va assegnata comunque un’importanza centrale e prioritaria: essa è il nodo intorno a cui si imperniano tutti gli elementi del quadro, o della scultura. E nella forma il lavoro di Bozzola afferma da subito una propria personalità, per non dire originalità, anche rispetto al precedente a lui più prossimo che è quello appunto di Di Salvatore. Le composizioni di Bozzola, infatti, sono sempre sin-tattiche (quelle di Di Salvatore tendono invece piuttosto alla paratassi), articolate, unitarie e tendono quasi immediatamente a un’espansione nello spazio tridimensionale: a provarlo ci sono per esempio Struttura architettonica con posizioni variabili e Struttura con elementi mobili, entrambe del 1954, opere in metallo che non nascondono una parentela con certe, coeve, Sculture mobili e Sculture da viaggio di Bruno Munari, oltre che con alcune Strutture di Regina. Anzi, è proprio con le opere della scultrice di Mede Lomellina che l’affinità risulta più evidente e meno osservata. Regina, che aderisce al MAC nel 1951, vi apporta infatti una speciale golosità sperimentale, l’apertura a tecniche, materiali, infrazioni di linguaggio che la spingono precocemente (i primi tentativi in questo senso risalgono già agli anni Venti) a dissolvere le valenze più pesanti della scultura tradizionale, a tutto vantaggio di una plastica delicata, tecnologicamente avanzata e molto originale, che aveva già caratterizzato la sua posizione all’interno del Secondo Futurismo negli anni Trenta e Quaranta. Si tratta, naturalmente, di futurismo inteso nell’accezione di Balla e di Prampolini, cioè la più sperimentale, che si traduce in rilievi di latta, in figure di carta e in un’interessantissima quanto trascurata, esperienza cinematografica, il cortometraggio astratto presentato alla mostra di Scenografia cinematografica. 1° concorso internazionale di cinematografia scientifica e turistica, alla Villa Olmo di Como. Poi, dopo l’adesione al MAC, l’artista realizza suggestivi Fiori di gesso, <<… non mai frutto di una gratuita speculazione matematica, ma il risultato concreto di un’osservazione attenta dei fenomeni che sono alla base d’ogni elemento formativo della natura>> e strutture piene di lirismo, di delicatezza, forme decantate, rarefatte ed essenziali, che offrono un contributo particolarmente prezioso alla cultura composita del Movimento, anche più importante quando Regina decide di spingersi, nel corso degli anni Cinquanta, sempre più verso la libera interpretazione di strutture pure, di piccole dimensioni, in plexiglas multicolore e metallo, che anticipano alcune fra le formulazioni più rigorose e più aeree di Fausto Melotti e probabilmente colpiscono la fantasia di Bozzola, fornendogli un esempio illuminante di “apertura” della forma allo spazio che non esclude né il colore né il rigoroso concretismo dell’insieme. Una forma personale. Tuttavia, evidenziati debiti, modelli e affinità, bisogna cogliere ora le differenze che improntano l’esperienza di Bozzola già dal 1955 e la sospingono in una direzione personale e unica: in particolare, sto facendo riferimento all’assidua, irrequieta e quasi insaziabile ricerca di una”forma personale”, come l’artista dice, che nel 1955 giunge a un primo approdo, individuato in un elemento vagamente ellissoidale che, “aperto” da tagli lineari netti e rigorosi, mostra la capacità di articolarsi nello spazio in parti quasi trapezoidali che si incastrano e si combinano perfettamente le une con le altre, dando luogo a catene, sequenze plastiche continuamente variabili. L’artista è soddisfatto: da una prima, approfondita elaborazione puramente grafico-lineare, che si svolge tutta sulla superficie, egli passa rapidamente a “provare” la sua forma nello spazio tridimensionale, servendosi di lastre di ottone, ferro, acciaio o altri materiali metallici, opportunamente tagliati, piegati e collocati su una base (Funzione-sviluppo di forma concreta, 1955). La forma infatti, dal suo punto di vista, non deve essere solo rigorosamente concreta, esteticamente armoniosa e tecnologicamente avanzata, deve anche essere suscettibile di sviluppi, portare in sé, come in nuce, quella capacità di evolversi senza smentire mai se stessa, a somiglianza di quegli organismi del mondo vegetale tanto ammirati da Bozzola bambino. Il che, riportato all’ambito pittorico e ancora di più plastico, vuol dire consentire una sintassi articolata e coerente, più facile in pittura ma molto difficile in scultura dove quasi tutti, anche i maestri più grandi, hanno lavorato sul volume, cioè sulla monade, non sul modulo. Bozzola, invece, vuole fare il contrario perché è alla ricerca di un principio ordinatore dello spazio, di uno strumento versatile, capace di tendere al continuum, all’infinito, senza esaurirsi mai. E, in questa ricerca, l’artista ha pochi precedenti: fa eccezione Brancusi, che gli suggerisce infatti l’utilizzo dell’elemento seriale (la doppia piramide rovesciata e tronca della Colonna senza fine) come modulo di articolazioni aperte, più “primarie” quelle di Brancusi, più complesse e geometricamente articolate quelle di Bozzola, i cui materiali, non a caso, non sono legno, pietra o bronzo, ma lastre metalliche suscettibili di una lavorazione più moderna, di tipo industriale. Una volta appropriatosi saldamente di questa forma modulare elisso-trapeziodale, l’artista può iniziare a sbizzarrirsi in variazioni virtualmente infinite, basate o sul taglio parziale di una lastra, con effetti spaziali, o sull’incastro di unità singole che danno luogo a concatenazioni, cluster e multipli dinamici e coerenti. Una pratica che Angelo Dragone, in un articolo sulla “Stampa Sera”, aveva definito suggestivamente “dipingere col fuoco” , cioè col cannello della fiamma ossidrica che Bozzola puntava su lastre metalliche per ricavarne fori, tagli e incrostazioni. Il procedimento è già giunto a maturità nei primi anni Sessanta (con le Strutture e le Iterazioni) ma nel frattempo qualcosa di significativo è sopravvenuto fra il 1957 e il 1959, vale a dire una stagione più impulsiva e gestuale, meno controllata, evidente specie in tele e opere polimateriche, come l’interessantissimo pannello Struttura – complesso organico (1959), dove tracce di forme e di moduli ridotti ad elementi puramente lineari o a ombre colorate paiono inseguirsi sulla superficie in un moto incalzante, “da leggersi” da sinistra a destra, ulteriormente sollecitato dalle pennellate insolitamente dense e umorali e dal fondo incerto, a “tache”, macchie e irregolarità cromatiche. Alcuni hanno interpretato questi esiti come il sintomo, o la prova di una tardiva adesione all’informale da parte di Bozzola, anche se quest’ipotesi critica mi pare poco praticabile se si utilizza il termine “informale” per qual che davvero significa: un’adesione incondizionata “al bisogno di attingere la realtà mondana, di immergervisi come in un tuffo rigeneratore, di calarsi nella fisicità del fenomeno per inebriarsi della sua inesausta ricchezza: un dettato che tende a rifiutare, costitutivamente, ogni progetto aprioristico,a lasciarsi tentare dalle sirene pre-categoriali per cogliere la contingenza materiale nel suo svelamento”. Una dimensione, questa, necessariamente imbevuta di esistenzialismo, di pragmatismo, di fenomenologia e di individualismo, mentre Bozzola, semmai, guarda alle possibilità anche pittoriche del modulo, alla ricchezza dei possibili frutti del rapporto, sempre dinamico, dialettico e metamorfico, fra materiali, colori, segni e forme con un gusto sperimentale che non viene meno ma che si sostanzia di progettualità , di uno spirito, si vorrebbe dire, para-scientifico, appassionato, certo, ma anche lucido, e quindi poco fiducioso, anzi credo proprio refrattario, a incantesimi e disvelamenti. Si tratta forse piuttosto di “convergenze evolutive”, di esiti simili che si fondano però su premesse filosofiche e posizioni artistiche del tutto diverse; certo, a rendere urgente questa ricerca per quel che riguarda Bozzola, ha avuto un peso certamente anche la fine del MAC, scioltosi di fatto nel 1958 dopo la pubblicazione dell’ultimo numero delle Edizioni d’Arte Concreta del marzo-aprile di quell’anno. Una “chiusura dei lavori” che lascia Bozzola, membro del comitato esecutivo dal 1956, senz’altro più solo e forse in parte più disorientato. La prassi combinatoria: natura e cultura. Tuttavia egli, già nel ’59-’60 espone i primi Multipli e Sottomultipli in lastre di metallo tagliate, piegate e combinate insieme con la massima elasticità spaziale alla Galleria del Prisma di Milano e alla Galleria Numero di Firenze. L’informale proprio non c’entra; qui si tratta di rinnovamento della scultura, dell’idea stessa di plastica, ottenuta ora qui attraverso una prassi combinatoria che sembra ispirarsi ai meccanismi più segreti (e all’epoca del tutto ancora “invisibili”) della riproduzione cellulare, alle catene “aperte” degli acidi nucleici. Vale la pena di ricordare che gli anni Cinquanta sono stati importantissimi per la scoperta del DNA, della sua forma e della sua funzione: è nel 1953 che James D. Watson e Francis Crick suggeriscono il modello corretto della struttura a “doppia elica” della sostanza e pubblicano la scoperta su “Nature”. Grazie a queste ricerche, quasi dieci anni dopo, i due (insieme a Wilkins che ne aveva studiato la struttura ai raggi X) ricevono congiuntamente il Premio Nobel per la Fisiologia e Medicina. Intanto, nel 1957, Crick “intuisce” il rapporto tra DNA, RNA e proteine, e articola la cosiddetta “ipotesi di adattamento”, la cui conferma arriva l’anno dopo grazie all’esperimento di Meselson-Stahl. Infine, nel 1959, viene scoperta la prima anomalia genetica, la cosiddetta “sindrome di Down”. Siamo ancora lontanissimi dal “progetto genoma”, iniziato nel 1990, ma vale la pena di chiedersi se Bozzola fosse al corrente, seguisse e in qualche modo cercasse una strada per relazionarsi con queste scoperte che avrebbero cambiato non solo la medicina ma anche il mondo e la coscienza che l’uomo ha di se stesso. Perché è proprio in questo momento che la sua poetica, così coerente, consequenziale e originale, giunge a maturità. Bozzola ora opera con la stessa disinvoltura, efficacia e maestria, tanto sulla superficie come nello spazio, senza mai perdere di vista la monade di partenza, “base” dell’insieme e senza mai compromettere o turbare la sua potenzialità generativa e auto-replicante. Non ha quindi senso, non ne ha mai avuto in realtà, distinguere in lui il pittore e lo sculture perché entrambi lavorano alla stessa cosa, estrapolando conseguenze da una premessa che resta sempre uguale, e esercitando la sua ritmica “prassi”, che sempre mette in gioco spazio e tempo e si muove su un orizzonte tanto ampio quanto quello compreso fra la miniatura, o il gioiello, e il monumento, o la progettazione urbana. La “scala” non conta, perché tutto è relativo e, opportunamente modificate le proporzioni reciproche delle “monadi” generative, l’insieme funziona sempre con la stessa efficacia. Poco rilevante è anche che la “forma” di base sia “positiva”, e quindi collocata fisicamente nello spazio, in cui si schiude come un fiore, incorporandolo in una propria intima dialettica “alla Munari” di Negativo/Positivo o di vuoto/pieno, oppure “negativa” e quindi incisa su superfici e scavata in esse. Lo intuisce prontamente Marco Rosci, forse il più sensibile e attento di tutti i critici che si sono accostati al lavoro dell’artista novarese: “il valore di proiezione spaziale di tali monofore differisce apparentemente a seconda che si tratti di “negativi” legati al piano-matrice o incisi su di esso, o di “positivi” dialetticamente scissi da esso, ma il rapporto analogico e creativo forma-matrice e spazio-totale, spazio-visualizzato è intimamente costante e invariabile, costanza e invariabilità assicurate dall’unità dell’intuizione iniziale”. Va sottolineata anche la straordinaria prolificità di Bozzola in questo periodo, la sua “gioia”, si vorrebbe dire, nell’affrontare problemi tanto diversi come la realizzazione di un monumento urbano, di un film, di una lastra cimiteriale. Anzi, questa varietà di sfide lo spinge a prendere contatto e a “provare” la sua azione generativa di forma in continua variazione, in altre parole la sua “legge” combinatoria su materiali e in condizioni via via diverse: metalli (ferro, acciaio inox, argento, alluminio e altro) ma presto anche bronzo e pietre, tela, foglia d’oro, carta e ogni genere di superfici e di piani, colonne e steli, moduli liberi nello spazio e ritagliati a fiamma nella lastra. Bozzola non perde mai il gusto per la sperimentazione diretta, “artigianale”, dei materiali e per l’esplorazione tecnica delle loro risorse fisiche e fenomeniche. Verso la tecnica, infatti, l’artista mantiene e manterrà sempre un atteggiamento “positivo”, curioso e intraprendente, che discende in ultima analisi dalla cultura costruttivista e che era stato consolidato negli anni del MAC. Non a caso scrive: “quelle iterazioni possono e vogliono rappresentare la tecnica e gli effetti del macchinismo industriale dell’età contemporanea, con la “spietata” e ferrea successione di atti nella lavorazione a catena e ai pur benefici effetti della produzione in serie”. Bozzola e Tapié. Però il grande cambiamento, e forse l’accadimento più importante nella storia artistica e umana di Bozzola dagli anni Sessanta in poi, è l’incontro con Michel Tapié. Nel 1964 infatti egli entra nell’entourage dell’International Center of Aesthetic Research, fondato dal critico francese a Torino e l’anno successivo sottoscrive il Manifesto Baroque Ensembliste, insieme a Takashi Suzuki, Anna Minola, Carla Accardi, Lucio Fontana, Alfonso Ossorio e Giuseppe Capogrossi. Il carismatico ed energico inventore del termine “informel”, autore nel 1952 dell’influentissimo testo Un art autre, si era trasferito a Torino nel 1960, e dalla sua nuova base operativa percorreva il mondo in lungo e in largo alla scoperta di nuovi talenti e aspetti della creazione contemporanea. Con Bozzola è amore a prima vista: sarà reciproco, profondo, duraturo. Di Bozzola, a Tapié piace l’audacia, l’insistenza e la forza dinamica che lo porta a sospingere un principio di base molto semplice, come quello della ripetizione, fino a conseguenze così estreme che sfidano la “norma” tridimensionale in una vertigine di apertura, di ignoto, di infinito – un “algoritmo” intuitivo, incantato, “essenzialmente artistico” che finisce per produrre una morfologia autre. Si tratta indubbiamente di una forzatura (l’intuizione è supportata in Bozzola da un procedimento a “prova ed errore” che continuava all’epoca già da quindici anni almeno) ma il momento le è propizio e poi l’entusiasmo con cui il critico francese accoglie la prassi, per così dire, auto-generativa della sua opera, incoraggia Bozzola a intensificarla ulteriormente, realizzando nel 1967 quel capolavoro che è il Polittico, seguito quattro anni dopo da un altro progetto chiave, il libro Tecnoscultura operazionabile, vero e proprio prototipo d’arte cinetica, interattiva e programmata. Il Polittico è un’esemplificazione delle possibilità combinatorie della sua forma-matrice, la più avanzata prodotta fino a quel momento da Bozzola, costituita da venti pannelli intercambiabili, composti ciascuno da nove moduli; di questi, centoquarantaquattro sono stati “prelevati” e conducono vita autonoma, come singoli elementi tridimensionali. Il Polittico, dice Rosci, è “…un punto fisico-ottico d’incontro fra una forma pura, elementare, germinale (la “monofora”), manipolata dall’artista in tutte le sue illimitate virtualità di variazione combinatoria, e il valore mistico del concetto di infinito”. Sotto l’influenza suggestiva e liberatoria di Tapié, Bozzola accelera e intensifica la sua “ritmica” operativa, giungendo a un effetto davvero magniloquente (barocco), pur senza mai rinunziare al rigore che caratterizza come sempre le sue scelte. E, di questa nuova libertà, il Polittico, con i suoi riferimenti all’arte antica proposti già dal titolo, i suoi accenni alla mistica dei numeri, puntualmente notati da Rosci, e, quindi, la sua enucleata apertura sul “simbolico”, al di là dell’aspetto funzionale della forma, è il necessario paradigma. Che prepara, infatti, le vertiginose tavole Spazio –tempo, in cui la moltiplicazione della forma, che avviene sempre e comunque nel tempo, assume un’accelerazione fino a quel momento imprevista e si avvale anche dello strumento fotografico che, concettualmente e praticamente, ne intensifica la propagazione. Non a caso, qualche anno dopo, nel 1977, Susan Sontag avrebbe detto che la fotografia è, implicitamente e inevitabilmente, progetto di duplicazione del mondo. Comunque, tornando a Bozzola, un passo ulteriore è compiuto con il libro-multiplo Tecnoscultura operazionabile, salutato da Rosci come la raggiunta sintesi fra il contributo dell’artista, per definizione unico e irripetibile, e “l’appello all’individuale potenzialità del fruitore a “collaborare” o addirittura ad arricchire le virtualità intrinseche della problematica proposta dall’operare artistico”. Una riprova che ogni processo generativo, anche quello artistico, secondo la concezione di Bozzola, è sempre dialettico, richiede sempre la collaborazione di un altro, un’altra intelligenza e volontà, ancora una volta a somiglianza di quanto accade in genetica: il DNA infatti non può replicarsi da solo, è una “matrice” che attende il proprio complemento. Aggiunge infatti l’artista: “L’uso totale o parziale dei “moduli operazionali” generati dalla superficie-matrice coinvolge potenzialmente l’umanità – che ne sarà al contempo corresponsabile e compartecipe, attraverso l’intervento nello spazio – in una serie di operazioni differenziate che… attingono alla variabilità assoluta ed incommensurabile nel campo vitale del rapporto cosmico unitario”. Tapié invece, chiamato in causa non solo come esegeta ma come editore (come già era stato nel 1966 editore del volume sontuoso, ma meno preciso, Spazi barocchi) ammette che Bozzola è stato uno dei “pochissimi artisti che hanno attualizzato la nozione di scultura nei nostri tempi autres : … ha trovato il suo algoritmo e sa di poterlo esplorare indefinitamente… inoltre gioca, assai fortunatamente con il lato necessariamente spaziale della scultura, in un ludismo nel quale rigore e fantasia sono intimamente legati al cuore stesso del fenomeno artisticamente creativo…(e) ultimamente la sua proposta “etica” ci impone per incantesimo estetico, di entrare nel gioco…”. Un atto, quest’ultimo, o un’imposizione, che nessuno degli artisti attivi intorno al centro torinese aveva sentito ancora il bisogno di proporre e che invece sembra raccogliere, con perfetto tempismo, la proposta avanzata da Umberto Eco in Opera aperta, il libro uscito alcuni anni prima. Sembra infatti pensato per Bozzola, che Eco ritengo però non conoscesse, perlomeno non ancora, questo passaggio: “le forme plastiche… invitano il fruitore a un intervento attivo, a una decisione motoria, in favore di una poliedricità del dato di partenza. La forma, in sé definita, è costruita in modo da risultare ambigua … di qui la possibilità, da parte del fruitore, di scegliere le proprie direzioni e i propri collegamenti, le prospettive privilegiate per elezione e di intravedere, sullo sfondo della configurazione individuale, le altre individuazioni possibili”. Ecco che, nell’argomentazione sviluppata da Eco, si realizza la saldatura con la poetica “barocca” già articolata da Tapié perché, fra tutti gli stili tradizionali, è proprio il barocco a rinunziare, se non ad escludere, un punto di vista privilegiato, una prospettiva frontale, per suggerire invece una dimensione “avvolgente”, tanto per l’opera quanto per la modalità di fruizione della stessa da parte dello spettatore; avvolgente e precaria, provvisoria e metamorfica, ludica e in qualche misura dionisiaca. Ora, se Tapié apprezzava proprio la valenza autre di tutto questo, la componente impulsiva, creativa, morfologicamente imprevedibile, Eco ne valorizza invece piuttosto le novità epistemologiche e relazionali, l’instaurarsi di un sistema relazionale, aperto, relativistico e dialettico, in sostituzione di quello chiuso, newtoniano, limitato e falsamente assoluto. E sono soprattutto queste ultime le componenti del moderno barocco non solo apprezzate ma praticate da Bozzola nelle sue opere mature, cioè realizzate dalla Tecnoscultura operazionabile in avanti. Opere giocate sempre più spesso non come “oggetti” dotati di valore estetico, ma come campo di possibilità illimitate, tutte ancora e sempre suscettibili di azione, gioco, intervento; in altre parole, invito alla relazione, senza la quale nessuna prassi generazionale può andare al di là di una mera, rinunciataria sporogenesi. E in questo l’opera di Bozzola risulta un’indicazione esemplare, fortemente innovativa ed aperta verso il futuro. Un lungo finale di partita. Dai primi anni settanta fino alla scomparsa avvenuta nel 2010, Bozzola si esercita su una ricchissima serie di varianti morfologiche tecniche e materiali a partire dal suo modulo primo, l’unica monade stabile che si ritrova sempre intatta nel fluido propagarsi delle sue inarrestabili sperimentazioni. In particolare, negli anni Ottanta e Novanta, sono specialmente notevoli una serie di lavori sui pietra verticali o orizzontali, spesso intitolati suggestivamente Mappe. Lavori in cui è il corpo stesso, fisico, della pietra, granito bianco o nero o beige, marmo rosa del Portogallo e molto altro, ad appagare l’esigenza cromatica dell’artista e ad interagire con un segno e una forma che risulta incisa o più spesso scavata nel piano superficiale, fino all’individuazione di un secondo piano, più profondo. La forma così, la traccia, è presentata “in negativo”, è apertura di senso nel corpo ininterrotto della pietra, rugosità che trattiene la luce e infrange la levigatezza naturale su cui l’occhio scivola e s’intrattiene con sfumature e preziosità di tono. Talvolta Bozzola ricorre anche all’intarsio per arricchire ulteriormente un range di possibilità che ormai ha toccato, si può dire, tutti gli aspetti e le esperienze della scultura e della plastica. Egli, così facendo, rinuncia però alla riflessione, permessa solo da superfici specchianti in metallo, che tante strade gli aveva aperto nei decenni precedenti: intendo dire quel principio che accresceva ancora ulteriormente le possibilità generative della scultura-matrice, rendendo ambigua la sua soglia, il piano d’incontro con il mondo e portando quest’ultimo a specchiarsi e a replicarsi in essa, in un infinito gioco di rifrazioni e di riverberi, vere e proprie auto-generazioni virtuali che andavano a complicare quelle reali. A questo gioco, inventato da Brancusi con i bronzi specchianti degli anni Venti e Trenta e reso esplicito dallo scultore rumeno già nel 1920 con L’inizio del mondo, adesso Bozzola rinunzia a favore di un’istanza vorrei dire più gratificante, tattile, solida. La stessa solidità che in questa fase egli stava cercando di conferire alla sua immensa opera e al lungamente vagheggiato museo ad essa dedicato, necessario a conservarne non solo la memoria ma la lezione propositiva e, ancora una volta, aperta verso il futuro. Testimonianza esemplare di questa preoccupazione, è la serie di bassorilievi intitolata Origine (1988), che presenta la stessa forma incisa su nove diversi graniti provenienti dai quattro angoli del globo, dall’Europa al Sudafrica e dalle Americhe all’Estremo Oriente: quasi a ribadire la validità universale del principio formativo, la razionalità umana, ma anche la sensibilità estetica e l’inesausta capacità del simbolo di rinnovarsi e di continuare a propagarsi, anche oltre alla vita fisica del suo stesso autore. D’altronde, è lo stesso Bozzola a dirlo, “la mia opera è fatta per gli uomini e appartiene agli uomini”; come quella, vorrei aggiungere, di tutti gli artisti veri e di chi apre strade nuove per gli altri. Per questo infatti siamo qui.

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